Pubblichiamo il racconto vincitore della 13esima edizione deli concorso “Tuttiscrittori” dal titolo “La mia città nascosta”
La serata di premiazione, che nel 2018 era stata ospite del Castello, è tornata quest’anno a Coarezza, nella piazzetta del Pozzo
I racconti di due sommesi, Claudio Brovelli (risultato poi il vincitore) e Paola Pellai, sono stati selezionati tra i sei finalisti. Un onore per la città che festeggia il suo 60esimo compleanno
I sei finalisti hanno depositato nel loro racconto i ricordi e le emozioni che abbiamo condiviso ascoltando, sorridendo e commuovendoci perché nel cuore di ciascuno di noi c’è una città nascosta
La Pro Loco Coarezza ringrazia tutti i convenuti, le autorità e i cittadini, e dà appuntamento al 2020
Il medico gli aveva vietato tassativamente di fumare, ma Paolo alla sigaretta dopo pranzo non aveva mai rinunciato. Era una sorta di rito che, ignorando i rimbrotti della moglie, solitamente celebrava i cucina, alternando un tiro di sigaretta a un sorso il caffè e che si concludeva con l’ultimo goccio di vino avanzato volutamente nel bicchiere. Quel giorno però, nonostante fosse ancora febbraio, la temperatura primaverile lo convinse ad uscire sul balcone. La brezza mattutina aveva lucidato il cielo, rendendolo limpido e terso, tanto che sullo sfondo la sagoma del Monte Rosa spiccava nitidamente. Anche adesso le foglie della rigogliosa magnolia si muovevano chiacchierando al vento, mentre la coppia di tortore che l’abitava zampettava indisturbata nel piccolo giardino sottostante. Fosca, l’ormai tredicenne femmina di Terranova, se ne stava placidamente sdraiata al sole, incurante della loro presenza. Sembrava più interessata alle prime variopinte farfalle che, attirate dall’intenso profumo, volteggiavano da fiore in fiore attorno all’arbusto di edgeworthia, già da giorni in piena fioritura invernale. Sulla strada il traffico fra poco sarebbe ripreso intenso e rumoroso, ma ora, durante la pausa-pranzo, concedeva una breve e fragile tregua. Paolo, prima ancora di sorseggiare il caffè, accese la sigaretta. Aspirò lentamente e per un attimo inseguì con lo sguardo la nuvoletta di fumo che si disperdeva nell’aria. Quello era il momento della giornata in cui gli piaceva perdersi rincorrendo il filo dei propri pensieri, ma quel giorno fu distratto dal passaggio del dottor Martini che tornava dall’ambulatorio di Maddalena. Il medico, appena il tempo lo permetteva, si spostava in città usando la bicicletta. Paolo lo osservò sfrecciare davanti a casa: nonostante non fosse più giovanissimo, spingeva con apparente facilità un rapporto duro con una pedalata agile.
“Io non ci riuscirei nemmeno in discesa!” mormorò fra sé e sé, invidiando quella prestanza che lui non aveva più da tempo. E per l’ennesima volta si ripromise di comprare una bicicletta, però una di quelle con la pedalata assistita. Poi, proprio come era solito fare suo padre, spenta la sigaretta e bevuto anche il sorso di vino, incrociò le braccia sul tavolo, e vi appoggiò il capo socchiudendo gli occhi. Gustava quei quindici minuti ritempranti, durante i quali riusciva a malapena ad appisolarsi, quasi cullato dai rumori di sottofondo. I pensieri si scioglievano in una sorta di sogno lieve, animato da immagini sfuggenti, ma nel contempo rilassanti. Quel giorno, forse a causa del passaggio del medico, la prima visione fu di tante biciclette: quelle con cui, alla fine degli anni ‘50, i lavoratori arrivano al cotonificio Bellora. Ogni santo giorno, con il buono o brutto tempo, all’ora del cambio turno, l’ultimo tratto della via Mameli, quello sottostante la chiesa di San Vito, si riempiva di donne e uomini in bicicletta che attendevano l’apertura dei cancelli. Erano decine e decine, forse centinaia. Giungevano alla spicciolata: prima gli uomini, che di certo non avevano dovuto sparecchiare la tavola né tanto meno lavare i piatti, poi le donne. In gran parte provenivano dalle frazioni e dai paesi limitrofi: Coarezza, Golasecca, Sesona, Casorate, ma vi era chi arrivava addirittura da Varallo Pombia. Man mano si avvicinava l’orario dell’entrata il chiacchiericcio aumentava e, rimbalzando contro il muraglione di sostegno della chiesa, echeggiava in tutta la via, fin giù sino all’Oratorio, trasformandosi in un vociare sempre più fragoroso. Nell’attesa si scambiavano informazioni e notizie su figli, genitori e parenti. “Cuma la sta la me surela?”. “La sta ben, i besti gram a moran mai!…dim putos se al me neudin ghe pasà la fevara?”. In verità a volte si udivano anche accese discussioni, scorie di battibecchi avvenuti in fabbrica il giorno precedente. Il linguaggio, anche fra le donne, era molto colorito e sovente un sonoro “va da via i ciap!” si incrociava con un altrettanto categorico “ leca cù!”, se non con epiteti molto più pesanti. La cosiddetta “coscienza di classe”, se mai sia realmente maturata, sarebbe sopraggiunta solo anni dopo per attutire, almeno in parte, i dissapori e le gelosie personali. Ma alla dieci di sera, all’uscita dal lavoro, le piccole controversie sarebbero state quasi del tutto dimenticate e, soprattutto le operaie, si riunivano in piccoli gruppi per affrontare l’oscurità e le insidie del viaggio di ritorno a casa. Paolo, allora bambino, dalla finestra quelle biciclette aveva tentato più volte di contarle, ma non vi era mai riuscito. Come altrettanto vanamente aveva provato con le centinaia di rondini che, prima di ripartire per l’Africa, salutavano i propri nidi e la chiesa di San Vito volandole attorno tutte assieme. I palazzi che ora lo imprigionano non erano stati ancora costruiti e il campanile svettava sopra gli alberi del parco che incorniciava la chiesa. Per le rondini quello era il luogo ideale per nidificare e nelle calde sere d’inizio estate mettevano in scena un mirabile spettacolo fatto di voli radenti, di ardite picchiate e rapidissime risalite. Le acrobatiche esibizioni avvenivano sulle note della particolare colonna musicale eseguita soprattutto dai maschi che, ritrovato il nido, richiamavano le femmine con il loro inconfondibile e sonoro garrito. Al tramonto Paolo passava ore alla finestra ad ammirare i voli appaiati e simultanei a ali tese, gli sfiori incrociati e quella specie di infiniti inseguimenti con cui, senza mai posarsi, le rondini riempivano il cielo. Finché l’oscurità non le riportava al nido, sembravano voler giocare con il pur tenue refolo di brezza vespertina, quasi non volessero o sapessero fare altro. E forse fu proprio il ricordo di quei giocosi voli che, con il passar degli anni, indussero Paolo a giocare con le parole per comunicare le proprie emozioni.
Ma ora quello che fece socchiudere gli occhi di Paolo fu tutt’altro che il garrito di una rondine. Un autista frettoloso suonò ripetutamente il clacson, seguito quasi simultaneamente dal giustificato “vaffa” del portalettere. Paolo però non si scompose: si limitò a una sussurrata imprecazione e richiuse subito gli occhi. Sotto le palpebre lo attendevano altre biciclette: quelle del cinema Italia.
Sempre sul finire degli ’50, la famiglia Cosentino, proprietaria della sala, aveva infatti affidato ai suoi nonni il compito di costudire quelle degli spettatori. Allora nei giorni festivi le proiezioni iniziavano alle 14 e 30, ma i primi spettatori, per non correre il rischio di vedere il film stando in piedi, arrivavano mezzora prima, naturalmente in bicicletta. Vi era anche chi arrivava in ritardo, ma non era certo un problema: le proiezioni si susseguivano senza interruzioni e non era raro il caso in cui qualcuno vedeva prima il secondo tempo e poi il primo! Se la giornata era bella e il film di richiamo, le biciclette depositate erano centinaia e in occasione della proiezione di Ben-Hur, Paolo ne contò ben duecentoventi! Le più numerose erano da uomo e non poche trasportavano due persone: lui sulla sella e lei sulla canna. Ma ne arrivavano anche quelle che ne trasportavano tre: con un bambino sul sellino! Paolo invece solitamente veniva trasportato da sua nonna sul portapacchi posteriore di una Bianchi ancora con i freni a bacchetta.
La nonna soleva ripetere “chi più spende meno spende”, così anni prima non aveva lesinato spese e l’aveva scelta robusta e di marca, tanto che il nonno si lamentava che quella bicicletta “l’era custava un occ dal coo”. Per questo veniva trattata con estrema cura e la regolazione dei freni era periodicamente affidata alle esperte mani del Franchini, che riparava cicli e motocicli nel suo negozio in piazza Castello. Proprio lì, all’inizio dell’estate del ’61, a Paolo comprarono la sua prima bicicletta, una Legnano verde, a cui il ciclista abbassò al minimo la sella e cambiò le pedivelle: insomma una bici per la crescita, come i pantaloni con l’orlo risvoltato! Nella vita del ragazzino quella fu una svolta epocale che apriva insperate possibilità, schiudendo orizzonti e paesaggi sconosciuti. Non solo: finalmente poteva partecipare alle sfide calcistiche anche “fuori casa”. In bicicletta, con i più grandicelli ad aprire e chiudere la fila indiana, si andava in trasferta nei paesi limitrofi per dar vita a memorabili partite. Gli appiedati rimanevano tristemente in Oratorio, a volte senza nemmeno un pallone a cui poter tirare quattro calci, sperando malignamente che i loro amici tornassero imbronciati dalla sconfitta. La bicicletta poteva essere prestata solo a chi giocava davvero meglio di tutti, non prima di una lunga trattativa sul numero di figurine o biglie, o addirittura di ghiaccioli, da versare al legittimo proprietario. Sembra incredibile, ma in quelle trasferte, che i più nascondevano ai propri genitori, non successe mai un incidente. Il Sempione e via Giusti non erano certo trafficate come adesso, ma qualche rischio era pur sempre in agguato. Come quella volta che, reduci da una sonante sconfitta subita a Cimbro, una improvvisa grandinata sgranò la fila e Beppe, il più grande, fu costretto a ripercorrere un paio di volte l’intera strada del Tiro a Segno per recuperare i ritardatari. Ma una bicicletta, soprattutto se nuova, a quei tempi era pur sempre uno status symbol e purtroppo poteva far gola a qualche malintenzionato. A Paolo la Legnano verde fu rubata nel settembre del ’62 e da allora fu costretto ad usare la Bianchi della nonna. La cavalcò sino a quando, facendo ciclocross nei boschi in fondo al viale del Mattai del Moro, non ruppe in modo irrimediabile le forcelle anteriori. Oltre alla inevitabile sgridata dei genitori, dovette subire il silenzioso rimprovero della nonna. Lei con quella bicicletta aveva fatto chilometri e chilometri,
pedalando sotto il sole cocente e sotto la gelida pioggia battente che arrossava il viso e, nonostante le coprimanopole di pelo di coniglio, irrigidiva le mani. Sul portapacchi aveva trasportato di tutto e di più: figli, nipoti, fascine, pacchi di ogni tipo, sporte di pane e tanto altro. L’aveva persino usata durante il trasloco da Ranco a Somma, portando di volta in volta i cassetti del comò colmi di biancheria, il pentolame e la bombola del gas. La nonna mantenne il proprio muto risentimento per un paio di giorni, poi, per alleviare il senso di colpa che rattristava il nipote, sentenziò che “bisogna ciapala me la vengn: in fin di cunt l’è stai mei inscì, tant ormai fasevi fadiga a pedalà e sula costa del Bigiat ma criavan i ginocc e ma mancava ul fia”.
Ah la nonna! Come scordarsi quel suo fisico matronale e il volto intagliato dalle rughe come quello di una anziana squaw cheyenne, quel suo modo determinato e incoraggiante con cui dispensava saggi consigli a tutta la famiglia? Per Paolo era stata, via via, parafulmine, ombrello sotto cui ripararsi, porto dove rifugiarsi durante le ricorrenti tempeste adolescenziali…..
…Il rombo assordante del cargo delle 12 e 55 strappò Paolo da quelle immagini. Imprecando sonoramente, stropicciò gli occhi e si alzò. Le tortore si erano rifugiate nel folto della magnolia e Fosca, seguendo il sole, si era semplicemente spostata d’un metro. Quando vide Danilo, il vicino di casa, lo salutò abbaiando, ma senza minimamente scomporsi. L’uomo, sfoggiando la sua smagliante casacca da finto corridore professionista, tornava dal solito giro in sella alla “palmerina” ultraleggera e rispose al saluto con un cenno della mano. Già, le biciclette ci sono ancora. Seppur non più compagne di obbligata fatica, bensì inforcate per diletto, per svago o per libera scelta, ancora percorrono le nostre strade lasciando dietro di se solo l’armonioso e inconfondibile fruscio della catena. Le rondini invece, ormai quasi scomparse, non annunciano più la primavera e il campanile di San Vito, orfano del loro gioioso garrire, s’erge perenne e muto come uno sconsolato testimone del proprio inascoltato ammonimento.