Coscienza individuale e società ai tempi del Covid-19
Durante l’emergenza Covid-19, la legge ha limitato alcune delle libertà della persona al fine di arginare il sovraccarico delle strutture sanitarie, onde evitare il caso estremo (tuttavia avvenuto più volte nella prima ondata) di lasciare al medico la scelta tra chi far vivere e chi far morire, data la scarsità di posti in terapia intensiva. Nel periodo di marzo-aprile 2020 gli italiani si sono avvicinati, seppur spiritualmente, e questo ha fatto sì che, sebbene le limitazioni fossero stringenti, la coscienza comune e il senso civico abbiano prevalso sulla coscienza individuale.
La vera questione arriva nella fase tra la prima ondata e la seconda. Il virus non era cambiato, lo spirito con cui lo si affrontava e lo si affronta tuttora sì. La paura ha lasciato spazio alla comprensibile stanchezza. Non è facile comprendere le misure di distanziamento sociale e metterle in atto è quasi più difficile che sopportare una limitazione rigida come quella di un lockdown. In pratica la tentazione di ritornare alla vita pseudo-normale nel nostro privato, spesso ci ha illusi che fosse la cosa giusta da fare, non considerando il rischio del relazionarsi con altri senza seguire le direttive statali. L’appello al senso civico è stato preso diligentemente da molti, ma sono rari i casi di persone che abbiano fatte loro queste regole per tutto il tempo necessario. Alla fine, il bisogno di stare bene “prima noi” l’ha avuta vinta.
Le radici di una mancanza di senso comune si ritrovano nella nostra storia contemporanea. L’autodeterminazione è il principio supremo su cui si basa la cultura occidentale, infatti, il singolo è spinto a spostare sempre in avanti il limite dei diritti e delle libertà personali, ripudiando spesso i limiti preimposti (soprattutto se questi sono di origine tradizionale o paternalistica). Questo perché, nella nostra società, il diritto è solo nella legge allora il nodo della questione si trova quando la legge (nel nostro caso le varie restrizioni dei DPCM) si sovrappone alla coscienza individuale fondamento dell’autodeterminazione.
Cresciamo come singoli assoluti dalla società, come tante isole affrancate sullo stesso mare. Stiamo rimettendo in dubbio molto di quello che ci è arrivato come tradizione, spesso giustamente, per dare spazio a chi finora non ne aveva. In uno spirito di spinta come quello del nostro decennio, ci viene da dirci che forse pensiamo di essere avanti nei tempi, in termini di libertà individuale, ma allo stesso tempo indietro in termini di collettività. Lo Stato non aiuta a creare un humus sociale forte, spesso permettendo lo sviluppo di una società disparitaria e ingiusta. Ingiustizia è quando non viene trattato ugualmente chi sta nella stessa situazione. Le restrizioni imposte sono state in un certo senso ingiuste, soprattutto nella fase tra le due ondate, ma sarebbe stato difficile ottenere il contrario: ci sono troppi casi particolari e troppe categorie perché potessero essere tutti tutelati allo stesso modo. Che sia giusto o meno in situazioni così, dobbiamo farci il callo.
Cresciamo come isole. Come diceva John Donne nella sua poesia Nessun Uomo è un’Isola, dovremmo iniziare a considerarci come un continente. Un insieme di singoli elementi che formano un’unica realtà di senso compiuto. Così come ogni elemento geografico ha in comune l’essere fatti di terra, così è necessario riscoprire nell’essere umano un comune legame, che sia esso stesso anche il solo essere viventi sulla stessa Terra. Questa emergenza ci ha preso impreparati su molti fronti, mostrando le nostre fragilità. Sogniamo un futuro in cui il senso civico e comunitario superi l’individuo stesso, in cui l’essere singoli e unici fortifichi la nostra stessa realtà. Sogniamo un mondo in cui «la morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E non chiedere per chi suona la campana: suona per te».
Tommaso Merati